18 gennaio 2011

Le pensioni dei nostri figli

Con le riforme introdotte nel 1992 (Amato), 1995 (Dini), 1997 (Prodi), 2004 (Maroni), che prevedono, per il calcolo della pensione, il progressivo passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, si sono di fatto scaricati sulle nuove generazioni gli oneri crescenti di una popolazione sempre più longeva. Per la prima volta, in questa Italia repubblicana, i figli andranno in pensione in condizioni più penalizzanti (e non di poco) rispetto ai loro padri. Il sistema contributivo infatti, che entrerà in funzione a pieno regime nel 2015, prevede che l’importo della pensione verrà calcolato sulla base di quanto un lavoratore ha versato all’Ente Previdenziale durante l’intera vita lavorativa. Secondo stime effettuate dalla Cgil chi oggi guadagna 1240 euro al mese (con contratto a tempo indeterminato) dopo 40 anni di lavoro percepirà un assegno mensile di pensione pari a 508 euro. Meno del 50% dell’ultimo stipendio. Ancora peggio andrà per i lavoratori parasubordinati, poiché versano una minore aliquota contributiva (26,72%), il loro assegno di pensione arriverà mediamente al 36% dell’ultimo stipendio. A peggiorare ulteriormente la situazione si aggiunge l’abolizione dell’indicizzazione delle pensioni ai salari che produce inevitabilmente il progressivo impoverimento delle pensioni liquidate in passato rispetto a quelle più recenti, come si evince dai grafici elaborati dal Ministero del Lavoro. Già oggi la speranza di vita media per gli uomini è di 79 anni, mentre per le donne arriva a 85 ed il trend è destinato ad allungarsi. Questo significa che se in pensione si andrà tutti, uomini e donne, a 65 anni si prospettano anni veramente difficili per una larga fascia di popolazione (milioni di anziani). Sradicati dalla società produttiva, reddito dimezzato, gli acciacchi dell’incombente senescenza, questa fascia di popolazione dai capelli grigi, questa “ex working class”diventerà un serio problema all’interno delle diverse componenti sociali, politiche ed economiche del Paese, con ricadute facilmente prevedibili . Che fare dunque per evitare il rischio povertà negli anni della quiescenza? I due pilastri che oggi vanno a costituire il cosiddetto “Montante” per il calcolo della pensione sono costituiti dall’aliquota obbligatoria prelevata dalla busta paga e versata all’ente previdenziale (33%) più il T.F.R. in maturazione dal 2007. Abbiamo visto che non sono sufficienti. È indispensabile che ciascuno provveda a formarsi un terzo pilastro attraverso una forma di contribuzione complementare volontaria se vuole colmare il “gap” per arrivare a percepire un assegno di pensione pari al 75-80% dell’ultimo stipendio. Gli esperti in materia hanno calcolato che per ottenere un ulteriore 15-18% occorre accantonare per 40 anni il 10% circa del proprio reddito da lavoro per formarsi una forma di pensione integrativa. Le attuali giovani classi lavoratrici non erano ancora nate quando Vittorio De Sica girava il film “Umberto D.” , la storia di un docente universitario che, in pensione, diventa tanto povero da mettersi a chiedere la carità davanti al Pantheon: disperato fino al punto da tentare il suicidio. Lo vedano i giovani e lo rivedano i loro genitori quel film, perché domani i figli non perdoneranno facilmente ritardi e rinvii di oggi i cui costi dovranno essere pagati di fatto dalle nuove generazioni. Il giorno 21 settembre 2010 un deputato, Antonio Borghesi (I.d.V.) ha proposto in Parlamento l’abolizione del vitalizio (pensione) che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura ritenendo iniquo tale trattamento rispetto a quello previsto per i lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per poter accedere ad un trattamento di pensione. Ecco l’estratto del discorso presentato alla Camera: “Penso che nessun cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa accettare l’idea che gli si chieda, per poter percepire una pensione, di versare contributi per 40 anni, quando qui dentro sono sufficienti cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il parlamentare per un giorno (ce ne sono tre) e percepiscono più di 3000 euro al mese di vitalizio. Come, del pari, non si potrà mai accettare che ci siano altre persone rimaste qui per 68 giorni, dimessesi per incompatibilità del ruolo, che percepiscono un assegno vitalizio di più di 3000 euro al mese. Credo sia questo un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi sia per i deputati in carica sia per quelli cessati, chiedendo di versare i contributi che a noi sono stati trattenuti, all’Ente di Previdenza, se il deputato svolgeva precedentemente un’attività lavorativa oppure al fondo che l’INPS ha creato, con gestione a tassazione separata. Ciò permetterebbe ad ognuno il cumulo dei versamenti equiparandosi così ai normali cittadini e lavoratori che, alla maturazione del diritto, percepiranno la pensione in proporzione a quanto versato durante la vita lavorativa. Una semplice delibera dell’Ufficio di Presidenza sarebbe sufficiente per togliere questi privilegi che consentirebbero di far risparmiare al bilancio della Camera, e quindi a tutti i cittadini e contribuenti italiani, 150 milioni di euro l’anno.”

Ed ecco come è andata la votazione: Presenti 525 - Votanti 520 - Astenuti 5 - Maggioranza 261 Hanno votato SI: 22 - Hanno votato NO: 498

Siccome di questi fatti non ne danno notizia né giornali, né radio, né televisioni, ve ne parlo io.

2 commenti:

  1. I nostri ragazzi, prima debbono trovarlo sto benedetto lavoro. Debbono augurarsi che sia stabile e che duri per 40 anni. La vedo nera, saranno in pochi a prenderla sta pensione.

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  2. Presenti 525 - Votanti 520 - Astenuti 5 - Maggioranza 261 Hanno votato SI: 22 - Hanno votato NO: 498

    E bhe c'era d'aspettarselo!

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